martedì 7 aprile 2020

BERGSON

HENRI BERGSON 

La filosofia di Bergson può essere compresa e apprezzata solamente partendo dal contesto filosofico in cui si colloca: il porsi come una tra le reazioni più celebri e meglio riuscite all’imperante positivismo. Davanti ad una concezione della realtà rigidamente spiegabile attraverso leggi meccaniche e conoscibile solo attraverso il metodo scientifico, Bergson si domanda quale sia la specificità della filosofia e, soprattutto, che posto rivestano le scelte, i valori etici, religiosi e artistici dell’uomo. 
Sin da subito, Bergson viene considerato il più grande rappresentante dello spiritualismo francese. Tale corrente filosofica:
  • - invita a concentrarsi sulla interiorità degli individui, sullo “spirito”, sulla coscienza: una realtà diversa e non assimilabile a quella dominata dallo studio dei fatti naturali;
  • - riconosce alla filosofia il peculiare compito di indagare tale realtà, differenziandosi dal metodo e dall’oggetto propri della scienza.

La polemica di Bergson contro la totale riduzione della realtà alla visione scientifica è ben espressa nel suo contributo più originale: la concezione del tempo. Per il filosofo, il limite proprio della scienza è considerare il tempo come qualcosa di:
- “spazializzato”: ovvero come una successione di momenti distanti l’uno dall’altro, misurabili, tutti uguali;
reversibile: ovvero come qualcosa che si può ripresentare uguale a se stesso (per esempio negli esperimenti scientifici).
Ma il tempo della scienza, sebbene sia molto utile nell’organizzazione e nel funzionamento della nostra vita sociale, è molto diverso da ciò che percepiamo attraverso la nostra coscienza. Quest’ultimo è infatti:
- fatto di momenti che non potranno mai più ripresentarsi (irreversibili);
- fatto di momenti qualitativamente diversi l’uno dall’altro;
continuo: è uno scorrere senza sosta e un sovrapporsi di eventi del passato, presente e futuro.
Il tempo della coscienza per Bergson è quello della “durata”, in cui non è possibile distinguere e isolare nessun momento dall’altro e ogni cosa è allo stesso tempo un prodotto del passato e nuova. 
Per descrivere la diversità delle due concezioni, il filosofo si serve di due bellissime immagini:
- il tempo della scienza è assimilabile ad una collana di perle, tutte uguali, separabili e disposte lungo una linea retta;
- il tempo della vita è come un gomitolo perché, scrive Bergson, “il nostro passato ci segue, e s’ingrossa senza sosta del presente che raccoglie sul suo cammino”.
Bergson può spiegare come ogni nostra azione spirituale (decisione, pensiero) non può in alcun modo essere ridotta ad una pura concomitanza di cause necessarie ed esterne (il sopraggiungere di qualcosa che ci fa arrabbiare ad esempio). Al contrario, quello che siamo, pensiamo e facciamo è ciò che ci caratterizza e che dipende dal nostro passato, dal presente e da come immaginiamo il nostro futuro.
L’uomo nella sua vita spirituale è libero di determinarsi da sé. Tale impostazione è evidente anche nella differenza che Bergson rintraccia tra memoria, ricordo e percezione.
Mentre la memoria, infatti, è la conservazione integrale del nostro passato ad un livello inconscio, il ricordo è un’immagine con cui il nostro cervello recupera una parte della nostra memoria in vista dell’azione. La memoria pura, infatti, è tutto il nostro passato di cui potenzialmente noi potremmo sempre usufruire; ciononostante il ricordo ne rappresenta solo una piccola parte, sottratta all’oblio dal nostro cervello, e trasformata in un’immagine.
La percezione è quella facoltà che ci permette di selezionare i dati che traiamo dal mondo esterno (e che ci sono più utili) e che, spesso, ci dà la possibilità di far affiorare un ricordo (ad esempio: un odore, una sensazione percepita ci rimandano ad un ricordo del passato).
In quello che è considerato il capolavoro di BergsonL’evoluzione creatriceil filosofo mira ad una concezione che fa completamente cadere la divisione tra coscienza e natura, materia e spirito e vuole mostrare la realtà come unica e, soprattutto, come interamente dominata dalla “durata”.
Per Bergson, la vita, sia quella biologica sia quella spirituale, deriva da un’unica forza che lui chiama “energia vitale”. Quest’ultima si espande in tutto l’universo e dà origine a tutto ciò che esiste, creando le differenze tra i vari esseri e le varie specie (ed in particolare dando origine ai vegetali e agli animali).
Per chiarire questo concetto, il filosofo ci mostra l’esempio di una mano che affonda in una limatura di ferro: il movimento dell’arto (invisibile) è l’energia vitale, mentre le varie disposizioni dei grani di ferro rappresentano gli esseri e le specie. Non c’è dunque alcun motivo, né alcuna necessità in ciò che è stato creato: noi avremmo potuto essere altro, e ciò che siamo è il risultato di qualcosa che è stato. Quell’unica energia spirituale, infatti, nella sua continua espansione si è ramificata in molti modi possibiligenerando la vita materiale.
Analizzando il processo evolutivo, Bergson nota come gli uomini e gli animali (e gli insetti in particolare) abbiano via via affinato due caratteristiche differenti: l’istinto e l’intelligenza: mentre il primo consiste nel sapersi servire di qualcosa di cui disponiamo naturalmente (l’olfatto, il tatto ecc.), il secondo è la capacità di creare e utilizzare oggettiIstinto e intelligenza non possono mai esistere l’uno senza l’altro, ma l’uomo, all’inizio della sua storia, aveva sopperito ai sui limiti naturali potenziando la sua intelligenza.
Ciò, secondo Bergsonha dato origine alla scienza che, se è padrona nel campo delle cose materiali, risulta totalmente incapace di comprendere il movimento e il flusso continuo della vita.
L’uomo potrà cogliere ciò che di più intimo esiste nella realtà e il suo continuo fluire, abbandonando l’atteggiamento della scienza e avvicinandosi, invece, alla metafisica. Questa deve procedere non con la ragione ma attraverso l’intuizione: procedere dunque oltre e senza le parole ma servirsi di immagini, dell’arte, che è la sola disciplina in grado di non segmentare la realtà ma di coglierla nella sua unicità.

lunedì 23 marzo 2020

FREUD

SIGMUND FREUD

Sigmund Freud nacque il 6 maggio 1856, da una modesta famiglia israelitica, a Freiberg (Moravia). A Vienna, dove la famiglia si era trasferita quattro anni dopo la sua nascita, si iscrisse dapprima alla facoltà di Scienze, dedicandosi con alcuni successi alla ricerca pura e, successivamente, a causa di problemi economici, a Medicina. Nel 1881 si laureò e, quattro anni dopo, ebbe la libera docenza in neuropatologia ed una borsa di studio; ne approfittò per andare a Parigi, alla Salpêtrière, da Charcot, il più grande neurologo europeo di quei tempi. 
Per la cura degli isterici Charcot si serviva dell'ipnoterapia ed in quegli anni l'interesse di Freud per l'ipnosi divenne vivissimo. Dell'ipnosi per la terapia dei casi isterici si serviva anche a Vienna il dottor Joseph Breuer.
A partire dal 1887 Freud iniziò a collaborare con lui. Da questa collaborazione, che durò sino al 1895, Freud ricavò alcune acquisizioni che resteranno essenziali per la terapia dell'isteria e di altre nevrosi. I risultati di questo lavoro comune furono pubblicati nell'opera Studi dell'isteria apparsa nel 1895.
Motivi teorici e pratici e in massima parte una sostanziale diversità di interessi provocarono il graduale allontanamento di Freud da Breuer, allontanamento che si compì poco dopo la pubblicazioni degli Studi. A partire dal 1895 Freud iniziò la propria autoanalisi che si concluse nel 1900. 
Freud, che aveva conseguito la libera docenza nel 1885, ottiene la carica di professore straordinario all'università di Vienna nel 1902 e, in seguito, di professore ordinano. Tali riconoscimenti erano dovuti al suo prestigio di neuropatologo, infatti in quegli anni la psicoanalisi era ancora fraintesa o ritenuta scandalosa ed oggetto di accuse e di polemiche, tuttavia aveva iniziato, sia pure lentamente, a diffondersi.
Nel 1907 si strinsero i primi rapporti con il Bürghölzli, la clinica psichiatrica di Zurigo, e cioè con Bleuler ed i suoi assistenti Eitington e Jung, che dovevano dar luogo alla pubblicazione di una rivista di studi comuni, lo Jahrbuch fuer Psychologie und PsychopathologieQuesta collaborazione consentì una maggiore diffusione della psicoanalisi, grazie alla istituzione di una associazione privata ed all'insegnamento che pubblicamente se ne faceva da una clinica di così grande risonanza. In quegli anni Freud aveva pubblicato alcuni importanti lavori: Psicopatologia della vita quotidiana (1901), Tre saggi sulla sessualità (1905), Il motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio (1905). Nel congresso di Norimberga, tenutosi nel 1910, fu fondata una Associazione ufficiale degli psicoanalisti a capo della quale venne eletto Jung. Negli anni seguenti si tennero altri congressi, a Weimar (nel 1911) e a Monaco (nel 1913), e questi contribuirono a far uscire definitivamente la psicoanalisi dalla sua preistoria.
Nel febbraio del 1923 Freud avvertì i primi sintomi di un male che si rivelò un cancro alla mascella. Egli conservò, tuttavia, la sua straordinaria vitalità; continuò il lavoro di analista e di scrittore; volle rimanere sempre consapevole e presente a se stesso, rifiutando ogni pietoso inganno; nonostante i dolori, non prendeva calmanti, per non ottundere la propria usuale chiarezza intellettiva. Aveva continuamente accanto, in un rapporto sempre più stretto, la figlia Anna, cui era legato, dice Jones, da "una reciproca, profonda, silenziosa comprensione e simpatia". Anna era la sua compagna, la segretaria, l'assistente, la collaboratrice.
Nel 1933 i nazisti prendono il potere in Germania; nonostante i cattivi presagi di un'aggressione all'Austria e le ripetute esortazioni degli amici, Freud non vuole lasciare Vienna. Vi si deciderà solo cinque anni più tardi, di fronte all'Anschluss. Nel 1938, dunque, si trasferisce con la famiglia a Londra, dove muore l'anno seguente il 23 settembre 1939.

Le opere principali di Sigmund Freud:

  • Studi sull'isteria (1895)
  • L'interpretazione dei sogni (1900)
  • Psicopatologia della vita quotidiana (1901)
  • Tre saggi sulla sessualità (1905)
  • Il motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio (1905)
  • Il caso di Dora (1905); Delirio e sogni nella Gradiva di Jensen (1907)
  • Il caso del piccolo Hans (1909)
  • Il caso dell'uomo dei topi (1909)
  • Sulla psicoanalisi. Cinque conferenze (1910)
  • Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci (1910)
  • Totem e tabù (1913)
  • Storia del movimento psicoanalitico (1914)
  • Il caso dell'uomo dei lupi (1918)
  • Al di là del principio del piacere (1920)
  • Psicologia collettiva e analisi dell'io (1921)
Freud più che filosofo lo possiamo definire un medico psicanalista, che ha studiato i meccanismi della mente umana, dando una interpretazione scientifica del sesso e scoprendo e teorizzando "l'inconscio". Esso è la parte irrazionale della psiche; per i cattolici e gli illuministi non esiste, perché per i primi esistono solo gli istinti e per i secondi esiste solo la ragione.

La psiche umana è divisa in tre parti: 
- l'Es, che è scaturita dall'ambiente sociale in cui si nasce o da una eredità genetica;
- l'Io, che è regolato dal rapporto che si ha con la realtà;
- il Super Io, la parte più nobile della nostra psiche che si plasma in base alla coscienza, ai modelli e agli ideali di una persona.

Freud crede che l'uomo sia capace di sublimare gli istinti, ma non ammette la sola ragione nei meccanismi psichici.

Freud per arrivare a scoprire la psicanalisi lavorò tanti anni su dei malati, e dedusse che la differenze fra il malato ed il sano è un fatto di quantità di istinti, il sano riesce a mantenere l'equilibrio fra Es, Io, e Super-io. La psicanalisi è essenzialmente un metodo di cura contro le nevrosi, il malato fa un compromesso con il medico: per poter essere guarito, questo deve assolutamente lasciarsi andare per sciogliere le resistenze dell' Io e far emergere l'inconscio, questi sono in perenne lotta e, solo con l'emergere dell'inconscio, il malato può guarire. Il momento in cui il malato molla le forze mentali viene chiamato transfert, poi si ha la rimozione in cui l'Io del malato crolla e vengono esternati gli istinti nella abreazione. A questo punto lo psicanalista per poter procedere deve essere molto competente, non deve permettere che avvenga l'incrocio di sguardi con il paziente in quanto ciò potrebbe provocare lo stop dei processi di abreazione. 
In genere i malati più intelligenti guariscono prima, perché avviene prima in loro il fenomeno della associazione libera, ossia il malato si rende conto della sua malattia ed è più facile guarire. La migliore soluzione di una psicanalisi è la sublimazione, ovvero la trasformazione di istinti sessuali in qualcosa di produttivo (es: un uomo sublima i suoi istinti sessuali nello studio).

Freud ha analizzato anche il sogno. Egli ha detto che nel sogno c'è un contenuto onirico, proprio del sogno, e un contenuto latente, generato dall'inconscio. L'Io nel sogno si allenta, ma non sproporzionatamente tanto da fare emergere l'Es, si accede all'inconscio, tendiamo a trasferire un oggetto su un altro corpo.

Lo psicanalista ebreo, ha anche analizzato i vari stadi della sessualità, dividendoli in quattro fasi: 
- la prima è quella orale, il bambino prova piacere ad allattare dal capezzolo della madre; 
- la seconda è quella sadico-anale, il bambino prova piacere nell'escrezione delle proprie feci;
- la terza è quella fallica, in cui l'adolescente pratica autoerotismo (masturbazione);
- la quarta ed ultima fase è quella genitale, in cui l'uomo ha dei rapporti sessuali con il sesso opposto. 
In queste fasi, afferma lo psicanalista, si possono avere parecchi traumi o complessi, come i complessi di Edipo ed Elettra; questi si fanno alla mitologia greca, dove Edipo uccise il padre per l'amore per la madre, e al contrario fece Elettra. L'essere omosessuale è dovuto al fatto che nella fase fallica si pensa al proprio sesso
Il feticismo invece colpisce il bambino che non convincendosi che la donna è senza pene, vede peni dappertutto.

domenica 8 marzo 2020

KIERKEGAARD

SOREN KIERKEGAARD

Riconosciuto, insieme a Schopenhauer e a Nietzsche, come uno dei grandi contestatori del pensiero sistematico tematizzato dal filosofo di Stoccarda, Kierkegaard afferma la soggettività della verità ovvero una valenza esistenziale del vero: mentre la riflessione oggettiva di Hegel rende il soggetto un che di accidentale, facendolo quasi sparire in favore del pensiero astratto, la vera filosofia deve avere la capacità di illuminare l’esistenza.
La verità, in altri termini è quella che dona all’uomo la consapevolezza della propria condizione esistenziale come:
  • singolo che non può essere ridotto al processo storico e allo Stato (che in Hegel è il momento più alto dello Spirito Oggettivo);
  • individuo che deve scegliere e che, quindi, non può permettersi di scindere la verità dal bene che egli stesso vuole e attua a livello personale;
Il pensiero soggettivo di Kierkegaard è il pensiero del concreto esistente; un pensiero che è infinitamente più interessato all’esistenza stessa, con i suoi fatti concreti e la sua drammaticità che neanche la Cristianità stabilita è in grado di cogliere.

L’Aut aut e gli stadi dell’esistenza

Kierkegaard, muovendo da una prospettiva del tutto incentrata sulla persona, difende la possibilità di scelte libere tra alternative inconciliabili. È questo il significato dell’espressione aut-aut, la scelta che, nella sua drammaticità, deve essere continuamente affrontata da ogni individuo che, a fronte della sua libertà personale, non può delegarla o demandarla ad altri.
Questa scelta personale diviene necessaria per affrontare gli stadi dell’esistenza e per passare, in modo libero e volontario, da uno all’altro di essi. Kierkegaard distingue:
  • lo stadio estetico dove l’uomo vive sempre e solo nel momento, nella pura particolarità: è lo stadio della sensibilità e del rifiuto di tutto ciò che è impegnativo, ripetitivo, serio. La vita dell’esteta è contrassegnata dalla ricerca di sensazioni sempre nuove, dall’idolatria dell’instante e dal rifiuto di ogni legame stabile, sia affettivo che sociale. La figura che esemplica al meglio lo stadio estetico è quella di Don Giovanni, seduttore che passa da una donna all’altra senza mai legarsi e senza alcuna prospettiva. In questa vita dedita all’esteriorità, l’esteta fugge continuamente da sé stesso in una noia che maschera profonda disperazione;
  • lo stadio etico è connotato da stabilità e ripetitività, come ben dimostra la figura simbolo del matrimonio: qui l’uomo si sottopone a una regola e a un impegno costante nel tempo, scegliendo l’universale. Si tratta però di un atteggiamento rigoristico e serioso, dove l’uomo non riesce ancora a riconoscere il peccato e l’angoscia che l’accettazione di una regola e di una morale universale non possono risolvere. La verità di sé e della propria vita, la possibilità di guardarsi davvero come un io è ottenibile solo attraverso il pentimento, l’ultimo passaggio della vita etica, dove l’uomo si pone di fronte a un Dio personale rivelatosi in Cristo, incontro questo che gli consente di passare allo stadio successivo.
  • Lo stadio religioso trova la propria rappresentazione più pregnante nella figura di Abramo, disposto a sacrificare il figlio Isacco. In questo stadio l’uomo affronta il proprio io e gli aspetti di esso (l’angoscia e la disperazione) che finora non era stato in grado di capire e risolvere. L’uomo ha qui la possibilità di decidersi per il “salto della fede”, una scelta richiesta dal Dio della rivelazione cristiana e che è al di là della ragione, come ben dimostra il caso di Abramo.

L’angoscia e la fede

Decidersi per la fede, non è una scelta irrazionale ma un’opzione che risponde perfettamente all’esistenza umana; ciò è vero perché anche l’angoscia e la disperazione non vengono considerati da Kierkegaard come eventi eccezionali ma come sentimenti intrinsechi al soggetto e al suo modo di guardare al mondo.
In “Aut-aut” Kierkegaard considera l’angoscia come un sentimento strutturale in ogni essere umano dal momento che il suo modo di conoscere è essenzialmente sospeso nei confronti del futuro: mentre Dio del futuro sa tutto e gli animali nulla, l’uomo vive l’indeterminatezza del futuro, guarda al futuro in quanto indeterminato ed è qui che sorge l’angoscia, un sentimento che ha sempre un oggetto indeterminato, a differenza della paura.
All’angoscia sono strettamente collegate le dimensioni della possibilità e del peccato, dal momento che l’angoscia si riferisce sia a ciò che potrebbe accadere in futuro fuori di noi, sia a ciò che noi stessi potremmo fare in futuro.
Ne “La malattia mortale” è invece la disperazione ad essere compiutamente tematizzata come incapacità dell’uomo di accettare sé stesso, come condizione in cui l’uomo dispera di sé stesso. Mentre la natura umana consta, nella sua complessità, di differenti fattori in constante dialettica, gli uomini sono preda della disperazione perché, incapaci di accettare tutti questi fattori, rinunciano ad essere completamente sé stessi, puntando sul solo fattore, sia esso la finitezza e la materialità, o l’infinitezza e la possibilità, che riescono a controllare meglio.

Il Cristianesimo

Solo attraverso il Cristianesimo l’uomo riesce a guardare alla verità di sé stesso in tutta la sua complessità. Abbracciando il Cristianesimo l’uomo riesce a superare l’angoscia, dal momento che nessun evento contingente futuro, per quanto negativo, riuscirà a sottrarre all’uomo un bene eterno al quale è possibile accedere solo attraverso un atto di libera scelta, attraverso l’accettazione della libertà umana che nessun evento contingente futuro può mettere in discussione.
Il Cristianesimo è anche la scelta che consente di superare la disperazione: solo se si tiene il Cristianesimo per vero e lo si sceglie, l’esistenza dell’uomo, come passaggio dal finito all’Infinito, e la sua dimensione corporea e finita, come luogo dove l’Infinito si attua e verifica, diventano cariche di senso.
Kierkegaard spiega anche come è possibile considerare Cristo come la strada per la felicità. Se la fede è un salto oltre la razionalità pura e semplice, un paradosso, essa non potrà essere conservata solo attraverso argomentazione e convinzioni di natura intellettuale; essa è contro ogni intellettualismo, richiederà una volontà attiva e impegnata a tener vivo il sapere, attraverso il rischio esercitato in scelte concrete, capaci di concretizzare una dottrina che, altrimenti, sarebbe svuotata di ogni autenticità.

NIETZSCHE

FRIEDRICH NIETZSCHE 

Il pensiero di Friedrich Nietzsche è complesso e difficilmente assimilabile ad una costruzione sistematica e organica; gli stessi stili attraverso cui si esprime comprendono l’utilizzo di trattati, aforismi, poesie in prosa.
Le linee interpretative sono molteplici e seguono l’andamento del suo filosofare che può essere raggruppato in quattro fasi:     
  1. -La fase giovanile: dove domina l’interesse e l’ammirazione per il filosofo Schopenhauer e il musicista Wagner. A tale periodo corrisponde l’opera La nascita della tragedia dallo spirito della musica. Ovvero: grecità e pessimismo (1872).
  2. -La fase intermedia: dove avviene il ripudio dei precedenti ispiratori e prevale un approccio di tipo “scientifico” che comprende Umano, troppo umano (1878-1880) e La gaia scienza (1882).
  3. -La fase di Zarathustra con l’opera Così parlò Zarathustra
  4. -La fase finale, che comprende gli scritti degli ultimi anni tra cui Genealogia della morale (1887) ed Ecce homo (1888).
  5. Nella sua prima fase, Friedrich Nietzsche vuole celebrare il trionfo della vita e la sua accettazione più totale e completa. Davanti alla crudeltà, alla sofferenza, all’incertezza dell’esistenza Nietzsche decide di essere un discepolo di Dioniso, il dio dell’ebbrezza che incarna le passioni del mondo e che si contrappone ad Apollo, dio dell'ordine e della razionalità. 
  6. Nella seconda fase della sua filosofia, Nietzsche è mosso dal proposito di liberare la mente degli uomini da un “errore” fondamentale: la metafisica
    1. - Secondo NietzscheDio è la personificazione di tutte le varie certezze morali, religiose attraverso cui l’umanità ha dato un senso rassicurante al caos della vita. È l’essenza di tutte le credenze create dall’uomo per far fronte alla paura dell’assenza di logicità e di qualcosa di benefico che guida la vita.
    2. - Dio e la credenza in un mondo ultraterreno rappresentano una fuga dall’esistenza a cui il filosofo contrappone la sua visione dionisiaca.
    3. Con l’espressione "Dio è morto", Nietzsche intende la fine delle certezze che hanno guidato gli uomini per millenni. La morte di Dio non è un evento compiuto, bensì è in corso ed è annunciato dal cosiddetto “uomo folle” (il filosofo) mentre il resto dell’umanità non ne è ancora pienamente consapevole. 
    4. Il trauma causato dalla morte di Dio è il preludio dell’avvento del superuomo. Solo chi ha preso coscienza e accetta che non esistono più menzogne rassicuranti può riuscire a rapportarsi alla realtà e progettare la sua esistenza in modo libero e al di là di ogni costruzione metafisica
    5. La terza fase della filosofia di Friedrich Nietzsche si apre con le alternative che si aprono con la morte di Dio: l’avvento dell’ “ultimo uomo” o del “superuomo”. A parlare è ora il profeta del superuomo, Zarathustra.
    6. Per quanto Nietzsche si sforzi di cercare dei precursoriil superuomo corrisponde all’idea di un uomo nuovo, oltre e diverso da ciò che conosciamo. 
    7. Il superuomo di Nietzsche incarna un modello in cui si condensano e trovano rappresentazione tutti i temi della sua filosofia.
      Le caratteristiche che possiede, infatti, sono:   
      1. - l’accettazione della dimensione dionisiaca dell’esistenza, della “morte di Dio” e della fine delle certezze: l’uomo nuovo rimane “fedele alla terra” e al suo corpo, non più prigioni o temporanei passaggi prima della vita vera ultraterrena, ma le uniche realtà in cui estrinsecare la propria essenza.
      2. - il suo collocarsi nella prospettiva dell’ “eterno ritorno dell’uguale”. Secondo Nietzsche tutti gli eventi del mondo si ripresentano sempre identici a se stessi infinite volte. Pur essendo difficile stabilire con certezza cosa sia effettivamente questa teoria, il suo significato è chiaro e differenzia nettamente l’uomo dal superuomo: mentre il primo reagisce con terrore alla prospettiva di un eterno ripetersi degli eventi, il secondo la accoglie con gioia. Tale reazione scaturisce dalla prospettiva di vivere la vita come un qualcosa di “creativo” che ha in sé il proprio appagamento, di non ricercare in un “oltre” questo mondo la felicità e il proprio senso. In sintesi: vivere la vita come se tutto si dovesse ripetere all’infinito.
      3. - la capacità di mettere in discussione la morale, giudicata come “l’istinto del gregge nel singolo” (cioè le norme stabilite dalla società) e l’accettazione della fatica e del rischio di realizzarsi come nuova fonte di valori e di significati.
      4. - il porsi come “volontà di potenza”. Quest’ultima, per Friedrich Nietzsche, coincide con la vita stessa nel suo continuo espandersi. Il superuomo, infatti, vive nel continuo oltrepassamento di sé stesso, nel creare e progettare la sua esistenza in modo libero e al di là di ogni schema costituito. In questo è un artista: stabilisce un senso di fronte al caos del mondo e si libera dal peso del tempo e del passato.

domenica 5 gennaio 2020

SCHOPENAUER

Schopenauer 
Arthur Schopenhauer nacque a Danzica nel 1788, figlio di un banchiere e di una nota scrittrice di romanzi. Le pressioni del padre affinché proseguisse la strada da lui segnata non ebbero successo e proseguì gli studi di filosofia sino ad abilitarsi a fare il docente. Il suicidio del padre e il turbolento e contraddittorio rapporto con la figura materna segnarono profondamente il suo pensiero, ben sintetizzato nella sua opera più famosa Il mondo come volontà e rappresentazione. La prima edizione del suo lavoro (1819) non riscosse alcun successo e solo vent’anni dopo vide la luce la ristampa de Il mondo.   
Il motivo principale degli scarsi consensi accademici e di pubblico ricevuti risiedeva nell’avversione di Schopenhauer per la filosofia idealistica, molto in voga a quel tempo. In particolare, il filosofo era solito attaccare Hegel, appellandolo come un “sicario della verità”, la cui filosofia era mercenaria, utile agli interessi della Chiesa e dello Stato.
Schopenhauer rivendicava la libertà e l’autonomia della filosofia e sfidava apertamente il successo di Hegel organizzando lezioni di filosofia nella stessa università, negli stessi giorni e agli stessi orari.
Sino all’ondata di pessimismo che avvolse l’Europa dopo il 1848  Schopenahuer, però, non riuscì ad emulare o intaccare il successo del filosofo idealista. Mentre le aule universitarie erano sempre gremite in occasione delle lezioni di Hegel, solo pochi studenti frequentavano gli insegnamenti di Schopenhauer.
Schopenhauer morì a Francoforte nel 1860.
Sul pensiero di Schopenhauer agirono fortemente le influenze:    


  • -di Platone e la sua teoria delle idee;
  • -del Romanticismo (per quanto riguarda le tematiche dell’infinito, del dolore, dell’irrazionalismo e l’importanza assegnata alla musica e all’arte);
  • -della filosofia orientale (in particolare quella indiana buddista)
  • -del criticismo di Kant.

È la distinzione kantiana tra fenomeno (la cosa come ci appare) e noumeno (la cosa in sé) a costituire il punto di partenza del
 pensiero di Schopenhauer.
Quest’ultimo pensa infatti di aver capito qual è la via d’accesso per il noumeno, cioè la realtà che si “nasconde” dietro l’inganno, l’illusione e la parvenza del fenomeno. Solo il filosofo capace di interrogarsi sulla sua esistenza e sull’essenza della sua vita, secondo Schopenauer, può riuscire a squarciare il “velo di Maya” (la realtà illusoria che ci appare ai nostri occhi) e superare l’apparenza.
L’unico modo per rompere l’inganno del fenomeno è, secondo Schopenhauer, la possibilità dell’uomo di viversi non come intelletto o conoscenza ma come corpo. L’uomo, nel momento in cui non si rivolge alla realtà esterna utilizzando spazio, tempo e causalità con cui individuiamo e distinguiamo le cose del mondo (fenomeno) scopre che dentro di sé risiede la sua vera essenza, la sua cosa in sé: la volontà di vivere. Si tratta di un impulso impellente a cui nessuno può resistere, che spinge a esistere e agire. Tale volontà non appartiene unicamente all’uomo ma ad ogni essere della natura, l’essenza dell’intera realtà, è estendibile e comune al Tutto. 
La conclusione di Schopenhauer è che gli esseri del mondo non agiscono per nessuno scopo, non c’è senso nelle nostre azioni se non il volere per il volere, il vivere per continuare a vivere.  
Secondo Schopenhauer riconoscere che la vera essenza della realtà è la volontà, equivale a dire che la vita è dolore, è sofferenza perenne. Volere significa infatti desiderare ed il desiderio è mancanza di qualcosa, vuoto, dolore. Il piacere rappresenta solo una momentanea cessazione del dolore, il quale sopraggiunge nuovamente non appena è temporaneamente appagato. 
Tra il dolore e il piacere si colloca la noia, che è la situazione in cui viene a trovarsi l’uomo nel momento in cui placa temporaneamente i suoi desideri.  
Il pessimismo di Schopenhauer:  
  • - è cosmico, universale ed interessa ogni creatura. L’uomo avverte maggiormente il dolore in quanto è soltanto più consapevole e dunque più ricettivo nei confronti dei propri desideri e dei dolori conseguenti;
  • - la sofferenza universale è concretizzata nella lotta di tutte le cose (l’autoconservazione di un essere è garantita a patto di “passare sul cadavere” di un altro);
  • - l’unico fine della natura sembra essere quello di continuare a perpetuare la vita e, dunque, il dolore. L’amore come strumento per la riproduzione: L’individuo non é altro che uno “strumento” al servizio della specie. Ciò è particolarmente evidente nel fine dell’amore che per Schopenauer non è il piacere o la felicità dell’uomo, bensì l’accoppiamento e la riproduzione. Non esiste amore senza sessualità. Scrive infatti Schopenhauer: «Ogni innamoramento, per quanto etereo voglia apparire, affonda sempre le sue radici nell’istinto sessuale. (…) Se la passione del Petrarca fosse stata appagata, il suo canto sarebbe ammutolito.»


La risposta al dolore del mondo non può, secondo Schopenhauer, consistere nel suicidio: anzichè essere una liberazione dalla volontà di vivere ne costituirebbe, infatti, la sua più forte affermazione. Il suicida non nega la vita ma è soltanto “malcontento delle condizioni che gli sono toccate”.
La via per liberarsi dalla volontà di vivere e dagli egoismi ad essa connessi, consta in prima luogo della presa di coscienza del dolore (si passa dunque dalla voluntas alla noluntas) e avviene attraverso tre momenti:  
  1. - L’arte. Attraverso l’arte l’uomo contempla la vita anziché essere immerso nei sui bisogni e nella volontà egoistica. L’individuo si rivolge alle idee e si sottrae ai desideri quotidiani e ai conseguenti dolori. L’arte risulta quindi essere liberatrice in quanto ci offre una disinteressata contemplazione della vita e non una partecipazione vera e propria. Ma la funzione positiva dell’arte è passeggera in quanto offre all’uomo una momentanea pausa ed estraniamento dalla vita.
  2. - La pietà. Al contrario dell’estraniamento dell’arte, la pietà obbliga l’uomo a superare nella vita quella che è la fonte principale di dolore: la lotta tra gli individui. Empatizzando con la sofferenza dell’altro, ci identifichiamo con lui. Superiamo così quella illusoria divisione fenomenica tra chi soffre e chi arreca sofferenza (ottenuta attraverso il filtro dello spazio e del tempo), squarciamo il “velo di Maya”. Sperimentiamo dunque il noumeno, l’unità degli esseri e l’unicità della volontà. La pietà, quando diventa carità, rappresenta il vero amore in quanto ci porta a fare del bene al prossimo in modo disinteressato (diversamente dall’amore carnale, egoistico e interessato).
  3. - L’ascesi. Nonostante la pietà costituisca una vittoria contro gli istinti egoistici, l’uomo rimane pur sempre legato alla vita. L’unica vera liberazione dalla sofferenza è estirpare la volontà di vivere cioè il desiderio di esistere e di volere. In questo consiste l’ascesi, che comporta la castità (intesa come rifiuto dell’impulso riproduttivo), il digiuno, la povertà, il sacrificio, l’ automortificazione. Solo con l’ascesi l’uomo può raggiungere il nirvana. Sperimenta cioè una vera e propria negazione del mondo e dei bisogni e volontà individuali. 

BERGSON

HENRI BERGSON  La  filosofia di Bergson  può essere compresa e apprezzata solamente partendo dal contesto filosofico in cui si colloca...