domenica 5 gennaio 2020

SCHOPENAUER

Schopenauer 
Arthur Schopenhauer nacque a Danzica nel 1788, figlio di un banchiere e di una nota scrittrice di romanzi. Le pressioni del padre affinché proseguisse la strada da lui segnata non ebbero successo e proseguì gli studi di filosofia sino ad abilitarsi a fare il docente. Il suicidio del padre e il turbolento e contraddittorio rapporto con la figura materna segnarono profondamente il suo pensiero, ben sintetizzato nella sua opera più famosa Il mondo come volontà e rappresentazione. La prima edizione del suo lavoro (1819) non riscosse alcun successo e solo vent’anni dopo vide la luce la ristampa de Il mondo.   
Il motivo principale degli scarsi consensi accademici e di pubblico ricevuti risiedeva nell’avversione di Schopenhauer per la filosofia idealistica, molto in voga a quel tempo. In particolare, il filosofo era solito attaccare Hegel, appellandolo come un “sicario della verità”, la cui filosofia era mercenaria, utile agli interessi della Chiesa e dello Stato.
Schopenhauer rivendicava la libertà e l’autonomia della filosofia e sfidava apertamente il successo di Hegel organizzando lezioni di filosofia nella stessa università, negli stessi giorni e agli stessi orari.
Sino all’ondata di pessimismo che avvolse l’Europa dopo il 1848  Schopenahuer, però, non riuscì ad emulare o intaccare il successo del filosofo idealista. Mentre le aule universitarie erano sempre gremite in occasione delle lezioni di Hegel, solo pochi studenti frequentavano gli insegnamenti di Schopenhauer.
Schopenhauer morì a Francoforte nel 1860.
Sul pensiero di Schopenhauer agirono fortemente le influenze:    


  • -di Platone e la sua teoria delle idee;
  • -del Romanticismo (per quanto riguarda le tematiche dell’infinito, del dolore, dell’irrazionalismo e l’importanza assegnata alla musica e all’arte);
  • -della filosofia orientale (in particolare quella indiana buddista)
  • -del criticismo di Kant.

È la distinzione kantiana tra fenomeno (la cosa come ci appare) e noumeno (la cosa in sé) a costituire il punto di partenza del
 pensiero di Schopenhauer.
Quest’ultimo pensa infatti di aver capito qual è la via d’accesso per il noumeno, cioè la realtà che si “nasconde” dietro l’inganno, l’illusione e la parvenza del fenomeno. Solo il filosofo capace di interrogarsi sulla sua esistenza e sull’essenza della sua vita, secondo Schopenauer, può riuscire a squarciare il “velo di Maya” (la realtà illusoria che ci appare ai nostri occhi) e superare l’apparenza.
L’unico modo per rompere l’inganno del fenomeno è, secondo Schopenhauer, la possibilità dell’uomo di viversi non come intelletto o conoscenza ma come corpo. L’uomo, nel momento in cui non si rivolge alla realtà esterna utilizzando spazio, tempo e causalità con cui individuiamo e distinguiamo le cose del mondo (fenomeno) scopre che dentro di sé risiede la sua vera essenza, la sua cosa in sé: la volontà di vivere. Si tratta di un impulso impellente a cui nessuno può resistere, che spinge a esistere e agire. Tale volontà non appartiene unicamente all’uomo ma ad ogni essere della natura, l’essenza dell’intera realtà, è estendibile e comune al Tutto. 
La conclusione di Schopenhauer è che gli esseri del mondo non agiscono per nessuno scopo, non c’è senso nelle nostre azioni se non il volere per il volere, il vivere per continuare a vivere.  
Secondo Schopenhauer riconoscere che la vera essenza della realtà è la volontà, equivale a dire che la vita è dolore, è sofferenza perenne. Volere significa infatti desiderare ed il desiderio è mancanza di qualcosa, vuoto, dolore. Il piacere rappresenta solo una momentanea cessazione del dolore, il quale sopraggiunge nuovamente non appena è temporaneamente appagato. 
Tra il dolore e il piacere si colloca la noia, che è la situazione in cui viene a trovarsi l’uomo nel momento in cui placa temporaneamente i suoi desideri.  
Il pessimismo di Schopenhauer:  
  • - è cosmico, universale ed interessa ogni creatura. L’uomo avverte maggiormente il dolore in quanto è soltanto più consapevole e dunque più ricettivo nei confronti dei propri desideri e dei dolori conseguenti;
  • - la sofferenza universale è concretizzata nella lotta di tutte le cose (l’autoconservazione di un essere è garantita a patto di “passare sul cadavere” di un altro);
  • - l’unico fine della natura sembra essere quello di continuare a perpetuare la vita e, dunque, il dolore. L’amore come strumento per la riproduzione: L’individuo non é altro che uno “strumento” al servizio della specie. Ciò è particolarmente evidente nel fine dell’amore che per Schopenauer non è il piacere o la felicità dell’uomo, bensì l’accoppiamento e la riproduzione. Non esiste amore senza sessualità. Scrive infatti Schopenhauer: «Ogni innamoramento, per quanto etereo voglia apparire, affonda sempre le sue radici nell’istinto sessuale. (…) Se la passione del Petrarca fosse stata appagata, il suo canto sarebbe ammutolito.»


La risposta al dolore del mondo non può, secondo Schopenhauer, consistere nel suicidio: anzichè essere una liberazione dalla volontà di vivere ne costituirebbe, infatti, la sua più forte affermazione. Il suicida non nega la vita ma è soltanto “malcontento delle condizioni che gli sono toccate”.
La via per liberarsi dalla volontà di vivere e dagli egoismi ad essa connessi, consta in prima luogo della presa di coscienza del dolore (si passa dunque dalla voluntas alla noluntas) e avviene attraverso tre momenti:  
  1. - L’arte. Attraverso l’arte l’uomo contempla la vita anziché essere immerso nei sui bisogni e nella volontà egoistica. L’individuo si rivolge alle idee e si sottrae ai desideri quotidiani e ai conseguenti dolori. L’arte risulta quindi essere liberatrice in quanto ci offre una disinteressata contemplazione della vita e non una partecipazione vera e propria. Ma la funzione positiva dell’arte è passeggera in quanto offre all’uomo una momentanea pausa ed estraniamento dalla vita.
  2. - La pietà. Al contrario dell’estraniamento dell’arte, la pietà obbliga l’uomo a superare nella vita quella che è la fonte principale di dolore: la lotta tra gli individui. Empatizzando con la sofferenza dell’altro, ci identifichiamo con lui. Superiamo così quella illusoria divisione fenomenica tra chi soffre e chi arreca sofferenza (ottenuta attraverso il filtro dello spazio e del tempo), squarciamo il “velo di Maya”. Sperimentiamo dunque il noumeno, l’unità degli esseri e l’unicità della volontà. La pietà, quando diventa carità, rappresenta il vero amore in quanto ci porta a fare del bene al prossimo in modo disinteressato (diversamente dall’amore carnale, egoistico e interessato).
  3. - L’ascesi. Nonostante la pietà costituisca una vittoria contro gli istinti egoistici, l’uomo rimane pur sempre legato alla vita. L’unica vera liberazione dalla sofferenza è estirpare la volontà di vivere cioè il desiderio di esistere e di volere. In questo consiste l’ascesi, che comporta la castità (intesa come rifiuto dell’impulso riproduttivo), il digiuno, la povertà, il sacrificio, l’ automortificazione. Solo con l’ascesi l’uomo può raggiungere il nirvana. Sperimenta cioè una vera e propria negazione del mondo e dei bisogni e volontà individuali. 

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